Commentare la boutade di Vittorio Feltri sui “ciclisti investiti” è un po’ come sparare sulla croce rossa. Perché, in certi casi, le provocazioni alimentano i dibattiti, stimolano le riflessioni, soffiano sotto il braciere della critica. In questo caso, invece, le parole del giornalista, saggista ed opinionista italiano hanno sollevato un unico, unanime conato di disgusto.
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Per capire il senso delle sciocchezze proferite da Feltri basta riascoltare le parole di Michele Scarponi, uno che ha mille motivi per indignarsi e che, giustamente, ha annunciato querela. Oppure quelle dei tanti genitori che piangono sulla tomba dei figli morti ammazzati sulle strade che, su certe battute, no proprio non riescono a sorridere.
Lui, anziché chiedere scusa, ha deciso di infischiarsene ed appellarsi al “diritto di parola” (“Ormai – ha detto – qui non si può dire più nulla…”). Della serie, la toppa è peggio del buco.
La frase-choc di Feltri, da Daspo sociale, in realtà un tema lo solleva, quello della “responsabilità di chi fa informazione”. E’ un dogma a cui il mondo del giornalismo spesso ricorre per stigmatizzare l’inconsistente vacuità dei social, dove la pandemia dell’ignoranza si sta ormai espandendo in modo terrificante. Ecco, di fronte a quel mondo dove domina la virtualità, l’apparenza e la finzione, il giornalismo è sempre stato un argine solido per evitare la deriva, un pilastro per ribadire che, in un mare di idiozie e di relativismo, l’etica e la deontologia ancora sopravvivono. Questo credevamo tutti. Prima che Feltri aprisse bocca.