In questi giorni sembra non si possa parlare di altro: dai sei anni inflitti alla belga Femke Van Den Driessche, al caso Paolini che resterà lontano dalle gare per 18 mesi per positività alla cocaina, fino alle polemiche che impazzano nel mondo dell’atletica leggera per il rientro alle gare di Alex Schwazer, il campione olimpico della 50 chilometri di marcia di Pechino 2008 per il quale sembra sia stata predisposta una corsia privilegiata per poter tornare in gara per le Olimpiadi di Rio.
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L’occhio del ciclone di tutte le discussioni di questi giorni è indubbiamente “Bestie da vittoria” il nuovo libro di Danilo Di Luca appena presentato ufficialmente alla stampa, in cui l’ex professionista abruzzese
racconta la sua esperienza personale e che crea ancora più scalpore perché non rinnega niente di ciò che ha fatto.
“Se non mi fossi dopato – scrive Di Luca nel suo libro di memorie sul lato nascosto dello sport professionistico – non avrei mai vinto. Non mi pento di niente. Ho mentito, ho tradito, ho fatto quello che dovevo fare per arrivare primo. Nel ciclismo tutti sanno la verità, ma la verità è inaccettabile”.
Una verità che ha ribadito durante la conferenza stampa di Milano e nella puntata delle “Iene” andata in onda ieri sera su Italia : “Tutti i corridori sanno che tutti si dopano e che nessuno parla. Il campione crea un indotto che fa lavorare tante famiglie”, “Tutti si dopano e tutti lo rifarebbero, ma per la società civile è una verità inaccettabile”.
La risposta più “appuntita” però è quella all’intervistatore delle Iene sulla sua vittoria al Giro del 2007.
“Durante quel giro io ho effettuato 20 controlli di sangue e urine durante le tre settimane di corsa. Quindi significa che ho vinto rispettando le regole dell’antidoping…”
Alla luce di tutto questo viene naturale porsi una domanda: davvero sport e doping, sotto qualsiasi forma, sono destinati a convivere forzatamente?