Da una parte un trentino ruvido e testardo, dall’altra un piemontese di Novara lunatico e permaloso. Storia di un dualismo che, negli anni ottanta, ha spaccato in due l’Italia del ciclismo
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Aspettando di capire come evolverà il dualismo Aru-Nibali, l’ultima grande rivalità del ciclismo italiano è stata quella fra Francesco Moser e Giuseppe Saronni, la sfida che – a cavallo degli anni ’80 – vide, per la prima volta nel mondo delle due ruote, nascere il tifo organizzato in club.
Francesco Moser assomma sino a 53mila appassionati nel suo magico 1984, anno che annota il doppio primato dell’ora in Messico, la vittoria nella Milano-Sanremo e, dopo tanti tentativi infruttuosi, il successo nel Giro d’Italia. Più o meno lo stesso numero di tifosi contabilizza Saronni nei primi anni ottanta, dopo la vittoria nella corsa rosa edizioni 1981 e 1983 con in mezzo il trionfo iridato di Goodwood dopo l’argento di Praga.
Ma al di là degli albi d’oro – per entrambi ricchissimi – il dualismo fra Moser e Saronni si alimenta, soprattutto, per ragioni extra-sportive ed affonda le sue radici nella genealogia dei due contendenti.
Da una parte Moser, trentino ruvido e testardo, dall’altra Saronni, piemontese di Novara, altrettanto orgoglioso, ma più lunatico e permaloso. Da una parte il passista, incapace di vertiginosi cambi di ritmo ma efficacissimo nelle sue progressioni; dall’altra il velocista un po’ sonnacchioso, bravo a nascondersi tra le pieghe del gruppo, ma letale negli ultimi metri quando – a gomiti spianati – bisogna sferrare l’ultimo colpo di reni.
Moser è il simbolo iconografico della fatica e del portatore d’acqua che si guadagna “sul campo” le stigmati del capitano; Saronni, invece, baciato dal talento, è l’uomo che sfrutta il lavoro dei gregari che gli “apparecchiano” sul rettilineo finale quella volata che, con formidabile tempismo, non sbaglia mai.
Moser è un “Bartali” dei tempi moderni, saggio, brontolone e sempre spietato contro i “succhiaruote”; Saronni è un mix tra Baronchelli e De Vlaeminck, capace come pochi di ottimizzare le sue energie.
Moser è soprannominato “Lo sceriffo”, per quell’aria da lider maximo con cui pedala nel cuore del gruppo; Saronni invece lo chiamano “Il Bimbo” perché ha poca barba e per quell’imprevedibilità che solo l’infanzia può garantire.
Protagonisti di memorabili scaramucce sotto il traguardo, alimentate con telegenica scaltrezza da Adriano De Zan, Moser e Saronni non si sono mai amati. Divisi da una profonda antipatia reciproca, si sono sfidati fino all’ultima stilla di sudore, dividendosi equamente vittorie e delusioni. Sempre con tenacia e rispetto. Ma – come diceva Venditti – “amici mai”.
fonte redazione iNBiCi Copyright © INBICI MAGAZINE
foto: I campioni del nostro ciclismo Giuseppe Saronni e Francesco Moser
Credit Bettiniphoto