Quando in carriera hai massaggiato le gambe di Marco Pantani e di Riccardo Riccò avresti già abbastanza materiale per scrivere non uno, ma un’intera collana di libri. E già sappiamo che, tra le pieghe di quelle pagine, non si parlerebbe solo di ciclismo.
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Sarebbero libri danteschi – dal Paradiso all’Inferno – perché, fatte le debite proporzioni, non c’è dubbio che le biografie “maledette” di Marco e Riccardo abbiano qualche punto in comune.
In effetti, Roberto Pregnolato un libro di memorie su Pantani l’ha anche scritto, ma la sua verità – raccontata con Romina Volpi tra le pagine di “Con le ruote ai piedi” – è sempre rimasta un po’ ovattata. Come se l’ambiente del ciclismo, che non brilla mai di autocritica, non avesse troppo interesse a reclamizzarla: “In alcune interviste ho fatto i nomi e i cognomi – spiega – e sicuramente qualcuno se la sarà anche presa. Il ciclismo, dopo la morte di Marco, non mi ha trattato bene, ma se io non lavoro più tra i professionisti, sia chiaro, è perché l’ho scelto io. Le offerte dalle squadre in questi anni non mi sono di certo mancate, ma ho preferito dire di no.
Avrei voluto fermarmi già dopo Marco, ma Riccò era un mio compaesano, lo conoscevo da quando era ragazzino e, quando mi ha chiesto una mano, come avrei potuto rifiutare? A parte questo, non me la sono più sentita di lavorare per un singolo ciclista. Oggi vivo questo sport da spettatore e mi accontento di aiutare il mio amico Adriano Amici nella Coppi & Bartali, nel Giro dell’Emilia e in tutte quelle gare che lui organizza come Gs Emilia”.
Perché la voglia di staccarsi da quel mondo?
“Perché, in fondo, il mio nome sarà sempre legato alla figura di Pantani. Anche quando parlo con colleghi, giornalisti e addetti ai lavori il discorso, alla fine, scivola sempre lì. E io, che pure conservo ancora un affetto immenso per Marco, quando devo parlare di lui, non sono sempre sereno. Partecipare ad un Giro d’Italia, ad esempio, vorrebbe dire ripercorrere certe salite, rivivere quegli stessi momenti, tornare con la memoria a quegli anni fantastici ma, per certi aspetti, anche devastanti”.
Pantani e Riccò, in cosa si assomigliavano?
“Se li mettiamo in sella ad una bici Marco era di un’altra categoria, ma Riccardo non era così distante. Se avesse avuto un’altra testa, con quel motore gli sarebbe arrivato vicino. Riccò ha fatto degli errori e li ha pagati tutti, ma lui era un talento puro e, anche se il Panta era inarrivabile, anche Riccardo avrebbe potuto segnare un’epoca”.
Oggi segue ancora il ciclismo? C’è un corridore che le piace?
“Le emozioni che mi ha regalato Marco non le proverò più, però il ciclismo mi piace sempre. Una volta stravedevo per Jalabert, un campione e anche un signore. Così come mi faceva impazzire José Maria Jiménez, ‘El Chava’ (il selvaggio, ndr), anche lui un talento purissimo. Oggi tifo Van Der Poel che sinceramente preferisco a Van Aert”.
Un campione sopravvalutato?
“Direi Vincenzo Nibali. Non per sminuirlo, per carità, ma molte delle sue vittorie sono nate dalle disavventure altrui”.
Secondo alcuni addetti ai lavori, lei (e pochi altri) siete i veri depositari della verità del caso Pantani…
“Intendiamoci. E’ vero che con Marco, soprattutto in certi anni, abbiamo vissuto in maniera quasi simbiotica, ma se mi chiede ‘chi l’ha ucciso?’ io una risposta non ce l’ho. Sono convinto che a Madonna di Campiglio sia stato vittima di un colossale raggiro ma, anche se ho le mie idee, non sarei mai in grado di indicare esecutori e mandanti. Per fare delle accuse ci vogliono le prove e io le prove non le ho”.
Però lei conosce tanti aspetti inediti della vita di Marco…
“E’ vero, ma molte cose, sia belle che brutte, me le porterò nella tomba. Non per codardia, ma solo per rispettare quel vincolo di amicizia che mi legava a Marco e che neppure la morte può cancellare”.
Qual è l’ultima volta che ha guardato negli occhi Pantani?
“Venti giorni prima della tragedia, di ritorno da Cuba dove eravamo andati per firmare un contratto con una fantomatica squadra argentina che non è mai esistita. Una delle tante pagine bizzarre di cui bisognerebbe chiedere conto alla sua ex manager”.
In quell’occasione c’erano i presupposti per pensare al peggio?
“No di certo. Marco non era in forma ma aveva preso degli anti-depressivi e mi era parso un po’ confuso. Ma la cocaina, mi avevano detto, quella volta lì non c’entrava niente”.
Ha mai pensato che potesse morire?
“No, mai. Ho vissuto, anche da vicino, molti suoi momenti bui, ma l’ho visto anche reagire spesso alla grande. Un po’ come faceva in bicicletta dove potevi anche staccarlo, ma ti dovevi sempre aspettare che ritornasse a ruota. Tutti sapevamo che lottava contro un male oscuro, ma non avrei mai immaginato che Marco potesse andarsene prima di me. Quando è successo sono rimasto venti giorni quasi senza spiccicare parola”.
Ha visto il film di Domenico Ciolfi?
“Sì e l’ho trovato vergognoso. Racconta di un Marco manesco, drogato e cattivo. Nessuno nega che, nella sua vita, ci siano state delle zone d’ombra, ma chi ha conosciuto il Panta sa che lui era molto diverso da quella descrizione lì. Come si fa a raccontare la vita di un campione focalizzandosi soltanto sui momenti bui? Dopo aver visto quel film ero incazzato nero”.
Cosa farebbe oggi Marco?
“Sicuramente non sarebbe più nel mondo del ciclismo. Ne abbiamo parlato tante volte, ma la cosa non gli interessava. Perché lui adorava pedalare e la bicicletta era la sua vita, ma il mondo che orbitava attorno a questo sport, quello dei direttori sportivi e delle dinamiche federali, non l’ha mai sopportato. Gli piaceva costruire case. Chissà, forse avrebbe lavorato nel settore immobiliare…”.
E Riccò, invece, che carriera poteva fare se non fosse stato fermato dal doping?
“Aveva dei mezzi straordinari e, se non avesse fatto certi errori, oggi staremmo raccontando tutta un’altra storia. A differenza di Marco lui si allenava tantissimo, in maniera quasi ossessiva e, facendo tanta fatica, alla fine ha ceduto alla tentazione dell’Epo. Poteva diventare un fenomeno. Lui lo sa e credo che il rimpianto lo perseguiterà finché campa”.
A cura di Mario Pugliese-Copyright © Inbici Magazine