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Mario Chiesa - credit foto Rodella 2000

IN ESCLUSIVA. 10 DOMANDE A… MARIO CHIESA


Mario Chiesa, ex professionista classe ’66, è stato per molti un prezioso gregario ed è oggi uno stimato direttore sportivo. Tra le sue qualità figurano sicuramente la schiettezza e la voglia di dare sempre il massimo, doti che lo hanno reso un punto di riferimento per il ciclismo nazionale e non solo. Dopo anni nel professionismo, il bresciano ha trovato nuovi stimoli al fianco dei giovani del Team Iseo Serrature Rime Carnovali, squadra under23 e Continental. Anche per comprendere l’evoluzione del ciclismo negli ultimi trent’anni abbiamo rivolto a Mario le nostre consuete dieci domande.

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A Gennaio e Febbraio pedala con la tua bici
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Sei sempre a contatto con il ciclismo ma che ruoli ricopri oggi?

“Cerco di dare una mano un po’ a tutti senza strafare. Attualmente oltre ad essere direttore sportivo al Team Iseo, sono segretario della ADISPRO (Associazione direttori sportivi professionisti) e sono un membro della commissione tecnica per l’approvazione delle gare. Il mio impegno è continuo nel mettere a disposizione la mia lunga esperienza per portare soprattutto passione nel nostro ambiente”.

Quando hai iniziato a pedalare e come è stato il tuo percorso prima del professionismo?

Ho cominciato a correre a nove anni, a metà stagione del ’75 nella società di Rezzato. Avevo un compagno di classe che andava già in bici e mi sono trovato subito bene, mi piaceva lo scontro diretto e l’agonismo a livello individuale. Sono andato in controtendenza rispetto alla mia famiglia, tutti appassionati di calcio. Non ero un gran vincente ma ero sempre piazzato nei primi cinque e quella manciata di trionfi li ho sempre ottenuti in tutte le categorie minori”.

Come hai vissuto il passaggio tra i professionisti?

“Ero nel vivaio della Carrera e li c’era rivalità per passare tra i professionisti. L’anno prima ho fatto buoni risultati, ho vinto una tappa al Val d’Aosta, e ho avuto l’occasione di fare il salto di categoria. Non volevo assolutamente perdere quel treno e Boifava, tramite anche chi mi conosceva bene, si è convinto e mi ha ingaggiato assieme a Ettore Pastorelli e Raimundo Vairetti. In un primissimo momento ho sofferto il passaggio, soprattutto nelle grandi corse, ma ho trovato subito la mia dimensione”.

Una vittoria da prof al Trofeo Matteotti davanti a Ballerini e Giuliani. Quali sono i ricordi di quella positiva giornata?

“Prima di tutto mi ricordo che Boifava era abbastanza arrabbiato con me perché la settimana prima ero andato in Spagna a trovare un’amica. Aveva minacciato di togliere uno stipendio a chi non avesse finito la corsa quel giorno. Ho vinto giocando molto d’astuzia, sfruttando la rivalità tra Del Tongo e Ariostea. L’ultimo giro ho anticipato tutti e sono riuscito a mantenere quel vantaggio minimo che mi ha permesso di vincere”.

Tanti anni al fianco di grandi capitani Chiappucci, Roche, Bontempi e il primo Pantani. Come vivevi il tuo ruolo da gregario?

“Quando sono passato e avevo in squadra Guido Bontempi mi sono messo subito al servizio. Il lavoro di sacrificio era gratificante perché con lui più delle volte sapevi di correre per puntare alla vittoria. Correre a fianco di questi campioni mi stimolava a dare il 110%. A volte tiravo e sentivo meno fatica del stare a ruota. La motivazione mi permetteva anche di rimanere più concentrato mentalmente. Forse verso fine carriera, quando ormai anche Chiappucci non vinceva, questo stimolo a dare tutto è venuto meno”.

Hai avuto occasioni per rivederti con i tuoi ex compagni?

“Fino a poco tempo fa ero sempre dentro nel mondo del professionismo e molti compagni, come Rolf Søresen e Fabio Roscioli solitamente in Spagna, li incontravo alle corse. Con Roberto Visentini almeno tre o quattro volte all’anno ci troviamo a cena anche per ricordare gli anni in sella alla bici. Al tempo eravamo anche un bel gruppo di bresciani ed è più facile per noi, anche attraverso i social, tenerci in contatto”.

Quale è stato l’attimo migliore nella tua carriera?

“I miei momenti positivi sono legati ai Grandi Giri, soprattutto il primo Tour. Se mi chiedessero di scegliere tra la vittoria al Matteotti e le cinque presenze alla corsa a tappe francese, sicuramente sceglierei quest’ultima. Essere al Tour al fianco di Claudio Chiappucci, che ha indossato la maglia gialla, è stata un’emozione unica. Anche le corse con Marco Pantani rappresentano un ricordo indelebile”.

Giro d’Italia 2019 – 102nd Edition – 17th stage Commezzadura – Anterselva 180 km – 29/05/2019 – Roberto Petito – Mario Chiesa – photo Ilario Biondi/BettiniPhoto©2019

Al contrario quale è stato il momento di maggiore difficoltà?

“Nel ciclismo le giornate difficili possono capitare spesso ma ti danno modo di crescere e reagire. Il mio anno più difficile è stato sicuramente il 1997 quando non sapevo se continuare o smettere. Mentalmente ero impegnato a cercare di fare la scelta migliore, poi è arrivata la proposta di diventare direttore sportivo e ho preso la mia decisione”.

Quando hai appeso la bici al chiodo sei diventato subito d.s. Come hai vissuto questo cambio?

“Mi sono trovato dal pedalare al dirigere tutti i compagni di squadra con i quali fino a poco prima correvo. Tante volte mi hanno detto che da direttore sportivo avrei dovuto cambiare, anche se non è nel mio stile, ho appreso presto che non si possono accontentare tutti e certe decisioni devono essere prese. Il passaggio non è stato difficile ma non è stata una cosa immediata. Le difficoltà sono poi scivolate una volta acquisita l’esperienza giusta e aver capito il mio ruolo. Sono uno preciso e tante volte, non sapendo staccare la mente dal lavoro, ho messo energie oltre il dovuto nel fare tutto al meglio. Nel corso degli anni ho avuto molte soddisfazioni, tra cui la riconoscenza da parte di alcuni manager soprattutto per il mio lavoro di logistica”.

Quali sono i cambiamenti più significativi che hai visto dai tuoi tempi a oggi?

Questo ciclismo, a livello professionistico, è mutato troppo velocemente e ora non me lo sento più mio. Il principale cambiamento è legato all’introduzione della mentalità anglosassone che ha messo fine, se non in alcune eccezioni come la Movistar, a gruppi uniti anche dalla nazionalità. Ultimamente non mi trovavo soprattutto perché vedevo venir meno l’aspetto umano. Anche l’aumento delle figure ha portato un po’ di confusione, soprattutto quando i ruoli non sono ben definiti. Un’altra evoluzione da rivedere è la frenesia di fare passare i giovani pretendendo subito risultati. A volte c’è un eccessivo riciclo di corridori che dopo due anni vengono scartati e sostituiti da altri giovani, con il rischio di bruciarli. Questo alla lunga penalizza il nostro movimento, sottraendo under23 da una parte e non formando professionisti solidi dall’altra”.

Copyright© Inbici Magazine ©Riproduzione Riservata

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