Le bici le costruisce da quaranta anni portando avanti l’eredità di papà Nani, ha una passione sconfinata per il ciclismo che pratica anche da ottimo cicloamatore, ma soprattutto un filo rosso lega da sempre la sua azienda con il mondo delle competizioni su strada, che come costruttore lo vedono primattore assoluto delle grandi corse degli ultimi trenta anni, in special modo dei grandi Giri.
Training Camp Spagna Costa Blanca
A Gennaio e Febbraio pedala con la tua bici
dove si allenano i campioni del Tour de France, Giro d'Italia e Vuelta Espana
Scopri di più
Pensate, con Indurain, Rijs, Ulrich, Pereiro, Wiggins, Froome, Thomas e infine Bernal, ha messo per ben tredici volte il suo nome sul gradino più alto del Tour de France degli ultimi ventinove anni. Un vero record.
Forse lo avrete capito, stiamo parlando di Fausto Pinarello, che la passione per le bici, le corse e la tecnologia ce l’ha nel sangue e che a noi di InBici spiega la sua idea di bicicletta da corsa oggi, dove sta andando, e cosa la tecnica applicata alle due ruote ci riserverà in futuro.
La squadra che sponsorizza, la “corazzata” Ineos-Grenadier, è la sola dell’ambito World Tour a non utilizzare ancora i freni a disco in corsa, nonostante la gamma prodotto di Pinarello ovviamente preveda biciclette “disc”.
Pinarello, che sensazione prova ad essere l’unico costruttore senza “disco” nel plotone?
«A dire il vero anche per qualcun altro produttore è così, anche un altro produttore italiano (Colnago ndr) ha in gruppo bici con freni tradizionali. Comunque sia, nonostante questo, il 95 per cento delle biciclette da corsa che vendiamo sono con i freni a disco. È vero anche che oltre al peso – perché una bici con i “dischi” pesa almeno uno, due etti in più di una tradizionale – gli atleti professionisti in bici sanno andare, la bici per loro è strumento di lavoro, guidano molto bene e in discesa non sono così fanatici o spericolati come tanti cicloturisti, per questo riescono a gestire bene la guida in discesa anche con i freni tradizionali e magari con la pioggia vanno un po’ più piano. In ogni caso, comunque, l’obiettivo il prossimo anno è dare anche ai professionisti le bici con freni a disco».
A proposito di peso, da venti anni il peso minimo delle bici nelle gare UCI è di 6.8 Kg. È un limite che ha ancora senso, oggi?
«Ci sta. E questo vale ancora di più oggi, che si stanno imponendo i freni a disco, che pesano più dei freni tradizionali. Per me, se oggi il limite fosse sette chili andrebbe bene lo stesso. Più che altro aggiungerei un limite di peso sul telaio, che in termini di sicurezza è sicuramente più importante rispetto ad altri componenti. Se si rompe in corsa un telaio troppo leggero probabilmente è molto più pericoloso della rottura di una sella o di un reggisella. Se si rompe una sella non succede nulla, se si rompe un telaio è un bel problema, perché il corridore ci può rimettere la pelle».
Se non ci fossero regole tecniche UCI così rigide, la bici da corsa sarebbe diversa da come effettivamente oggi è?
«La risposta? Sì, le bici sarebbero molto diverse se le regole non fossero così rigide, ma allo stesso momento questo è giusto, perché senza regole ci sarebbero troppe “lavatrici” oppure bici non sicure. Anche a noi è capitato di essere stati fermati dalle regole. Ad esempio nel 1996 fummo obbligati dall’UCI a modificare la “Parigina” da cronometro di Bjiarne Rijs, perché aveva una forma fuori regolamento. Per farla partire abbiamo dovuto tagliare la “coda”… Ciononostante la bici di Olano e di Ullirch fece comunque prima e seconda… Insomma, è sempre giusto fare in modo che sia prima di tutto l’atleta a fare la differenza, non solamente la bici».
Leggerezza, rigidità, aerodinamica: può fare una gerarchia di questi tre requisiti per la costruzione di una bici da corsa, oggi?
«Noi abbiamo lavorato molto negli ultimi sei, sette anni sull’aerodinamica. Siamo partiti anche prima, con Indurain, venticinque anni fa, ma ultimamente abbiamo messo tanta carne al fuoco, anche perché l’aerodinamica ti permette anche di arrivare alla rigidità, quella rigidità che ottieni anche dalla geometria del telaio, da come posizioni le pelli di carbonio oppure dal tipo di carbonio che usi, unidirezionale piuttosto che 1K o 3K».
Cosa c’è oltre il carbonio? Ci sono i materiali alternativi tecnicamente validi per l’industria ciclistica “di massa”?
«Per il momento il carbonio è il materiale più performante per una bici da strada, per una mtb o per una gravel. Rimarrà sicuramente così per qualche anno. Ci sono altri materiali e altri standard, è vero, ad esempio l’alluminio idroformato piuttosto che il titanio, ma per il momento il carbonio la fa da padrone».
Oggi si parla molto di standard di costruzione con stampa 3D. è un processo che è ancora un sogno per la costruzione delle bici di altissima gamma da competizione? O in futuro ci possiamo aspettare qualcosa?
«Noi la stampante 3D la usiamo per i manubri in titanio, i nostri manubri sinterizzati in titanio. Per i manubri, oggi, non ci sono problemi a utilizzare la stampa tridimensionale. Probabilmente in tempi non sospetti arriveremo anche a un telaio stampato in 3D. Non ti posso dire in che materiale, ma probabilmente ci arriveremo. E non si tratterà di un telaio rimediato… ».
Il praticante amatoriale italiano ha sempre desiderato la bicicletta “race”, il top di gamma. È ancora oggi così?
«In Italia la cultura della bici da corsa è una cultura forte, è così da tantissimi anni, un po’ come in Francia. È una cultura dove il cicloturista vede la bici usata dal pro come la bici di riferimento, la bici che vince. È indubbio che la squadra professionistica ti aiuta molto in questo senso. In un contesto simile e a questi livelli è chiaro che tra una bici che costa diecimila euro e una che ne costa ottomila, il cicloturista spenderà di certo diecimila euro».
Oggi il genere del momento è quello delle gravel bike. Commercialmente parlando, viviamo qualcosa simile a quello che successe negli anni Novanta con il boom delle mountain bike?
«La gravel è un fenomeno molto importante. Negli ultimi tre, quattro anni ha avuto un’impennata pazzesca, probabilmente simile a quella delle mtb negli anni novanta ma non ancora così importante. È un nuovo modo di andare in bici, senza cronometro, alla ricerca di paesaggi diversi e a stretto contatto con la natura. I praticanti sono sia ciclisti su strada che acquistano una seconda bici, sia altri che alla gravel arrivano dalla mtb, gente che ha capito che i percorsi non troppo estremi che poteva fare con la bici da montagna si possono fare con la gravel».
Una volta i corridori avevano i telai su misura: oggi su misura per i corridori al massimo sono fatti i manubri, ad esempio quello che usa nelle cronometro il “suo” Ganna. Ma se gli si facesse anche il telaio su misura non sarebbe ancora meglio?
«Potrei dirti che ci chiamano ancora “i sarti delle due ruote”. Una volta era più facile fare un telaio su misura, perché con l’acciaio, il titanio e l’alluminio bastava tagliare oppure aggiungere, e in questo modo potevi fare anche millimetri di differenza. Sì, è vero, con il carbonio e con la tecnologia monoscocca è difficile cercare di fare telai su misura, ma noi sulla nostra Dogma abbiamo ben tredici misure disponibili, e non sono affatto poche per un solo modello di bicicletta. Poi grazie alla larghezza del manubrio, alla lunghezza dell’attacco e all’inclinazione del reggisella che noi proponiamo in ben tre versioni, posso dire è praticamente quasi impossibile sbagliare la misura di bicicletta di ogni atleta».
Quanto conta il segmento “elettrico” nella strategia commerciale di Pinarello? Quali margini di crescita ancora ci sono? Siamo solo all’inizio?
«Le bici a pedalata assistita sono oggettivamente il futuro per una tipologia di clientela che di certo non è la clientela della Dogma. Ti permettono di fare percorsi che non faresti mai, o perché non sei allenato, o perché non hai voglia di allenarti o perché hai qualche anno in più o ancora perché ti vuoi divertire senza far troppa fatica. Credo che, a parte la bici da strada che non sarà mai troppo “elettrica”, la pedalata assistita rappresenterà nel futuro il 90 per cento delle bici mtb e delle bici da città».
Come potrà l’industria della bici competere con quella dei motori quando – come dicono in molti – i grandi marchi dell’automotive decideranno di entrare nelle bici a pedalata assistita?
«Chissà, probabilmente sarà così, è chiaro che questo potrebbe succedere. Ma allo stesso stesso tempo ci saranno anche molti altri motori diversi, così che il costruttore che viene dal mondo delle bici potrebbe usare sistemi diversi rispetto a quelli che userà chi viene dal mondo dei motori».
Bici elettriche a idrogeno: è solo un sogno ancora lontanissimo?
«Affatto, io sono molto più verso l’idrogeno piuttosto che verso altri sistemi di assistenza. Lo stesso Jim Ratcliff, che fa parte del gruppo Ineos, sta investendo molto nel seguire la strada dell’idrogeno. Ben venga!».
Cosa il mondo della bicicletta dovrebbe o potrebbe imitare da altri mondi tecnologici?
«Non sono sicuro che il mondo della bici debba imitare da altri mondi tecnologici. È chiaro, non stiamo parlando di navette aerospaziali. A livello di automotive sappiamo benissimo che le macchine da F1 sono un po’ più avanti a noi rispetto all’ aerodinamica e magari anche in termini di ricerca sui materiali, ma non è detto che uno che fa macchine di Formula1 riesca a fare una bicicletta fica come la nostra».
Nei quasi settanta anni della vostra storia il ciclismo agonistico su strada è sempre stato il vostro riferimento, ciò attraverso cui il pubblico vi identifica. Crede che nel mondo la percezione di questo sport sia rimasta allo stesso modo la stessa?
«In casa nostra il ciclismo agonistico è una parte del nostro dna, il dna di mio papà che è riuscito a tramandare tutto questo a un figlio, a trasmettergli la capacità di fare le bici su misura per gli atleti, per permettere loro di vincere le gare, in fondo per fare quel che da corridore non è riuscito a fare lui, che ha trasformato questo in voglia di riscatto che lo ha portato a costruire le migliori bici per vincere la maglia rosa o la maglia gialla. Noi ci siamo riusciti, e spero di continuare ad avere sempre questo dna. È la nostra storia, è stata la nostra storia, e sarà sempre la nostra storia. È difficile cambiare faccia, difficilmente una Ferrari può diventare una macchina per andare a fare la spesa. La nostra è una macchina da corsa. E tale rimarrà».
a cura di Maurizio Coccia e Tina Ruggeri ©Riproduzione Riservata-Copyright© InBici Magazine