Nelle scorse settimane, il nostro sito web ha raccontato la storia di Daniele Peschi, corridore del TRZ Cycling Team tesserato per la categoria ID, abbreviazione di Intellectual Disability. Secondo la normativa federale, chi appartiene a questa categoria non è considerato né un paralimpico né tantomeno un normodotato, in quanto la categoria ID è considerata una categoria a sè stante. In buona sostanza, il mondo del ciclismo è diviso in tre: i normodotati, i diversamente abili a livello fisico (il paraciclismo) e i diversamente abili a livello mentale, i quali non competono né con i normodotati né con i paralimpici. Gareggiano solo tra di loro.
Dal 18 al 25 Gennaio 2025 in Costa Blanca
Pedala con Riccardo Magrini, Luca Gregorio e Wladimir Belli
i commentatori del cisclimo su Eurosport Italia
Scopri di più
Della vicenda di Daniele Peschi, e più in generale della situazione dei disabili intellettuali, abbiamo parlato nell’articolo Perché i disabili intellettuali non possono competere per il tricolore?, disponibile cliccando qui. Dopo questo articolo, Vanessa Casati, team manager del TRZ Cycling Team, ha lanciato una petizione su change.org, in quanto, ad oggi, per i disabili intellettuali non c’è possibilità di correre per un campionato italiano, in quanto le loro gare vengono considerate come “promozionali”, un po’ come avviene per i Giovanissimi.
Ieri è esploso un altro caso, quello della squadra che ha deciso di non prendere parte a una gara di ciclocross in quanto il giudice di gara non ha fatto partire un altro tesserato per la categoria ID insieme agli altri partecipanti.
Ma è giusto che i diversamente abili intellettuali possano competere per un titolo importante per il tricolore? Oppure è meglio soffermarsi a un’attività prettamente “ludica” del ciclismo, senza classifiche generali e titoli nazionali?
Per rispondere a questi quesiti, abbiamo contattato la dottoressa Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell’Associazione Italiana Persone Down, assistente sociale, che ha risposto alle nostre domande, riferite a tutti coloro che devono convivere con qualsiasi disabilità intellettuale.
Dott.ssa Contardi, che idea si è fatta dell’episodio dei bambini che hanno deciso di non gareggiare in quanto il loro compagno, disabile intellettuale, non poteva partire insieme a loro per affrontare la gara?
“Io credo che ci siano diverse incertezze a livello di regolamenti, e queste incertezze generano confusione. Tanti ragazzi che hanno delle disabilità intellettive hanno la possibilità fisica per poter gareggiare insieme agli altri ragazzi, quindi è giusto che loro prendano parte alle gare. E’ necessario che ogni disabile intellettuale venga valutata nel suo stato di salute, ma se ha un certificato medico che attesta il fatto che questo ragazzo sta bene, non capisco il motivo per il quale non possa gareggiare”.
Quanto è importante, secondo lei, gareggiare per una competizione importante come il campionato italiano per un disabile intellettivo?
“E’ davvero molto importante, ma credo che sia necessario spiegare ai disabili cosa vanno a fare. Il principio è quello di verità: una persona con disabilità intellettiva deve sapere che affronta una gara nella quale può vincere o può perdere, e queste sono le due facce della stessa medaglia dello sport, che non deve insegnare solo l’agonismo, ma anche tante altre cose. Ci si confronta con i propri limiti e con le proprie potenzialità. Nello sport ci deve essere spazio per tutti. L’importante è seguire i disabili intellettuali da un punto di vista medico e psicologico per venire incontro ad eventuali criticità, sulla base della loro storia pregressa”.
I disabili intellettuali si trovano in una categoria a sé stante. E’ giusto così o è meglio racchiuderli con i paralimpici? Oppure con i normodotati?
“Secondo me, lasciarli in una categoria a sé stante è controproducente per loro, in quanto subentra un problema di inclusione sociale. Bisognerebbe agire in base al loro grado di disabilità: chi non incorre in problemi fisici, secondo me, può tranquillamente gareggiare con i normodotati. L’importante è sempre spingerli a fare sport quando sono giovani, perché da adulti è difficile farli inserire in contesti simili, e ricordiamo che, nell’orientare un ragazzo verso l’una o l’altra disciplina, è necessaria un’attenta valutazione medica. Ribadisco, comunque, che non far gareggiare questi disabili intellettuali per competizioni importanti significa farli sentire diversi dagli altri, e tutta l’inclusione sociale viene meno”.
A cura di Carlo Gugliotta per InBici Magazine