Alessandro Petacchi è ancora oggi, palmares alla mano, uno dei velocisti più decorati del nostro ciclismo, un corridore che ha scritto pagine importanti della storia di questo sport. Con Alejet abbiamo viaggiato in prima classe nei suoi ricordi tra la Sanremo vinta, il bis sfiorato e poi tutta la sua carriera, con uno sguardo alla situazione del ciclismo italiano e non solo.
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Alessandro, il tuo nome è sempre inevitabilmente accostato a quello della Milano Sanremo. Ci racconti in che modo preparasti quella storica Classicissima del 2005?
“Per me era la gara più importante della stagione. Nel momento stesso in cui risalivo in bici, i primi di novembre, la mia testa era già totalmente protesta verso quella corsa. Gli allenamenti, il calendario, le gare erano tutte in preparazione per la Milano – SanRemo. L’anno che la vinsi, mi ricordo bene, anche in casa con mia moglie avevamo stilato un programma alimentare; non ho mai fatto diete ma quell’anno stetti particolarmente attento all’alimentazione. Il segreto per me era perdere un po’ di peso ma restando sempre con la stessa massa muscolare. Migliorando un po’ il rapporto peso – potenza, infatti, spendevo meno energie in salita, preservando poi le gambe per fare la volata. Nel 2006 paradossalmente andavo ancora più forte dell’anno in cui la vinsi, ma non riuscii a trovare lo spunto decisivo”.
Quanto ti brucia ancora il piazzamento dell’anno successivo?
“Nel 2005, per la verità, con il senno di poi avrei dovuto partire prima nella volata. Ero un po’ condizionato dal fatto che ero rimasto ‘scoperto’ troppo presto; mi ero buttato su un lato della strada e ho pensato che, appena avessi visto qualcuno partire, gli sarei andato dietro. Quella volta andò bene perché avevo talmente tante gambe che riuscii a vincere di potenza. L’anno seguente, avendo a ruota un campione come Boonen con la maglia di Campione del Mondo, non ho rischiato di partire prima perché non volevo ‘tiragli la volata’. In una gara così lunga, del resto, non puoi rischiare, devi aspettare sempre gli ultimi 200 metri e dare tutto lì. Poi, rivedendo la corsa, forse avrei potuto rischiare. Potevo farli magari quei 30metri in più e rintuzzare Pozzato proprio sulla linea o batterlo con il colpo di reni. E’ andata così. Peccato perché stavo andando veramente forte. Poi, dopo l’infortunio al ginocchio, ho sempre fatto fatica a trovare la condizione, ma in quegli anni ero al massimo a livello fisico. Sono tornato abbastanza vicino a quella condizione ma, per colpa degli acciacchi, credo di aver perso almeno un paio di stagioni. E purtroppo erano quelle migliori”.
La Sanremo nell’ultima edizione ha cambiato il percorso, perdendo alcune delle sue caratteristiche identitarie. A tuo avviso è meglio questo percorso o quello classico?
“Credo che la Sanremo è sempre stata quella classica con la Cipressa, il Poggio, i Capi e il Turchino. E anche la salite delle Mànie ha sempre avuto il suo perché. Credo che la Sanremo sia bellissima così e deve rimanere così, un po’ come la Parigi Tours. E’ una corsa che, anche se si arriva allo sprint, non è detto che vinca sempre il velocista più forte. Nel 2004 è stata la volata più corta che ho fatto in carriera: la squadra aveva fatto un grandissimo lavoro per me, ma a pochi metri dal traguardo mi sono piantato in mezzo a via Roma, perché ero appesantito, non avevo la gamba o, meglio, non per una volata dopo 300 chilometri di corsa. Se non stai bene, se non sei perfetto dopo ti spegni. Il campanello d’allarme è il Capo Berta che ha delle pendenze che ti fanno capire se puoi essere protagonista o meno. Se sul Berta sei ‘al gancio’ sul Poggio ti stacchi, è matematico. Io, per caratteristiche, aspettavo sempre la volata. L’anno che provai a fare qualcosa di diverso fu nel 2010 quando seguii Pozzato e Gilbert, ma commisi un errore, perché scollinai terzo sul Poggio, pagando lo sforzo in volata. Se avessi mantenuto le energie avrei potuto vincere anche in quell’occasione”.
Come si prepara una corsa di trecento chilometri a livello fisico?
“Se fai una Tirreno Adriatico fatta bene, cercando di non ammalarti, ti fai la gamba. Io ho preferito sempre fare la gara dei due mari perché finiva a ridosso della corsa, anzi terminava qualche giorno prima così facevo un allenamento di quattro ore il giovedì ed il sabato correvo. Facendo invece la Parigi Nizza, c’era tanto tempo tra la fine della corsa a tappe francese e la Milano Sanremo e per me, che sentivo tanto la pressione della corsa, era uno stop troppo lungo”.
Chi vedi favorito per la vittoria quest’anno?
“Il 2020 è stato un anno un po’ atipico. Van Aert è un fuoriclasse con grandissime qualità, però credo che corridori come Sagan ed Alaphilippe abbiano l’esperienza per fare bene. Però, uno con la fisicità dello slovacco ha bisogno di correre tanto per trovare la condizione migliore. Se riesce a fare un inverno fatto bene correndo il giusto è un corridore che non ha nulla da invidiare a Van Aert o a Van der Poel e anzi in volata può dire la sua”.
Sagan, Van Aert e Van Der Poel sono tre corridori che, anche se in periodi diversi, vengono dal ciclocross: è un segnale importante?
“La multidisciplinarità è fondamentale, questo ormai si è capito. Poi loro sono tre fuoriclasse. Si allenano molto. Alla fine, quando fanno cross, affrontano un’ora di gara, ma vanno completamente fuori giri e, quando arrivano su strada, scavano la differenza. Gareggiano in qualche gara di Coppa del Mondo, ma li vedi che fanno un po’ una corsa tra di loro. Van Aert ha un fondo incredibile, Van der Poel vincendo il Fiandre si è un po’ consacrato. L’anno prima, senza caduta, avrebbe potuto vincere, ma ha fatto un numero incredibile nonostante la caduta perché era un momento in cui c’era grande confusione. Rimontare tutto il gruppo è sempre molto complicato e camminare nella canalina è qualcosa di incredibile. Conta tanto come sai andare sul pavé. La gente che arriva dal cross ha un modo di pedalare diverso da chi fa solo strada, chi va forte sul pavè ha una pedalata molto rotonda. Hanno doti che li portano ad una facilità apparente, a fare la differenza in momenti importanti. Per fare un paragone con Federer, lui fa sembrare facili colpi complicatissimi. Lo vedi picchiare la pallina e credi sia semplice giocare, ma in realtà lo è perché è lui a rendere facili quei colpi”.
Hai vinto la maglia della classifica a punti in tutte e tre le grandi corse a tappe: quale ti ha dato più soddisfazione?
“Vincere la maglia ciclamino in Italia per un italiano è importante, è bello. Poi non sono partito per andare al Tour con l’intenzione di vincere la maglia verde, ero andato là per vincere una tappa. Poi, subito dopo aver vinto una frazione, ne ho vinta un’altra dopo qualche giorno. Ho lottato molto con Hushovd, perché lui attaccava sempre in momenti impegnativi della gara. Riusciva a fare numeri pazzeschi vincendo tappe anche in montagna. Mi sono ritrovato alla fine a lottare con Cavendish riuscendo a Parigi a vincere la maglia dopo 48 anni da Bitossi, che non era ancora maglia verde. Il primo italiano a vincere la maglia verde di fatto sono stato io”.
Cos’è il Tour per un corridore?
“E’ l’università del ciclismo. Il livello dei corridori è altissimo perché tutte le squadre portano i migliori. In tutte le formazioni ci sono i primi 8-9 che hanno programmato la stagione solo per il Tour. Il livello in gruppo è altissimo”.
Sei il migliore italiano per vittorie in un Giro dopo Binda, cosa significa?
“Binda, senza nulla togliergli, le ha vinte prima della Guerra. Nel ciclismo moderno credo sarà un po’ difficile eguagliare il mio primato. Quello fu un Giro particolare perché c’erano 10 arrivi in volata, ma è vero anche che erano volate un po’ particolari perché non sempre c’era il gruppo completo. Alcune volte erano plotoni di 50 corridori ed esserci sempre, in un grande Giro, non è mai facile. Quell’anno andavo bene, avevo una grande squadra al mio fianco e, quando abbiamo capito che potevamo fare qualcosa di importante, abbiamo lavorato per quello. Potevo vincere 10 tappe, ma una l’ho persa al fotofinish per un errore mio, altrimenti potevo fare l’en plein. Sono numeri importanti che sarà difficile battere per parecchi anni”.
Tante vittorie al Giro, alla Vuelta, al Tour e nelle classiche. Qual è quella che ti dava più soddisfazioni?
“Se vinci una tappa al Tour ti fa una carriera. Senza sminuire nulla, ma una tappa al Tour se la ricorderanno sempre tutti. La Grand Boucle ti apre le porte, se vinci una tappa in Francia vieni invitato ai criterium che fanno in Olanda o in Belgio, mentre se vinci una tappa al Giro no. E’ una gara che è vista in tutto il Mondo… 1500 giornalisti accreditati. Se vinci al Tour ha il suo perché, ma se vinci una Classica è qualcosa che ti resta addosso”.
C’era un corridore che “soffrivi” di più?
“Credo che per caratteristiche il mio rivale più duro fosse Mc Ewen. Quando in una gara, all’ultimo chilometro, mi giravo, lui era sempre lì. Era bravissimo nel prendere la ruota, nel decidere di battezzare un avversario, quando arrivava non lo spostavi. Era un pistard, aveva il baricentro basso per cui non lo toglievi di ruota facilmente. Poi aveva anche le gambe e le ruote se le veniva a prendere un po’ anche di gamba. Era un corridore molto corretto, a discapito di come era dipinto. Ha fatto qualche eccesso, ma solo con chi gli ha “rotto le scatole”. Difficilmente faceva una scorrettezza. Ne ha fatta una anche a me, ma solo per prendere mezza ruota, ma quella è astuzia, non ha mai fatto nulla per ostacolarmi. E’ rimasto un grande rispetto, ci sentiamo ancora. Un altro che ho sofferto era Zabel, faceva più di 110 gare all’anno…”.
Chi è il nuovo Petacchi?
“In Italia non lo vedo. All’estero non saprei, perché sono tutti corridori che vanno forte, ma non hanno mai la costanza di vincere tanto in un anno, vedi sempre troppi alti e bassi. Ci sono corridori che hanno fatto intravedere tanto, ma senza continuità”.
Hai corso molto, con molte squadre, quindi hai vissuto il gruppo in maniera profonda. Tra i tanti corridori con cui hai gareggiato c’è quel talento che non è sbocciato, quello da cui ti aspettavi qualcosa in più?
“Qualcuno sì c’è stato, qualche atleta che sembrava potesse fare qualcosa in più. Come ad esempio Diego Ulissi, da lui ci siamo sempre aspettati tanto. Secondo noi aveva le potenzialità per fare qualcosa di importante in una classica. E’ un corridore fortissimo a cui manca solo quel qualcosa nel finale per fare la differenza, ma è stato intelligente nel capire come muoversi. E’ un corridore alla Valverde, che va bene in salita ed è veloce. Lo abbiamo visto come corridore da classiche ma gli è sempre mancato l’ultimo spunto”.
A tuo avviso perché oggi un corridore italiano fa così fatica ad essere protagonista in un grande Giro?
“Perché non c’è ancora il corridore da grandi corse a tappe. Nibali è lì perché lotta e, se ha le tre settimane perfette, ha la qualità e l’intelligenza per poter vincere. Però se ti arriva un Pogacar o un Van Aert che è stato messo a disposizione di Roglic é complicato, ma non escludo che Vincenzo possa tornare ad essere protagonista”.
Come vedi la situazione dei velocisti ad oggi?
“Il corridore che, secondo me, aveva le potenzialità per diventare il numero uno era Jakobsen. Purtroppo si sa l’incidente che ha avuto, ho visto una sua intervista e mi é dispiaciuto molto che si sia fatto male in questo modo; bisogna vedere se questa paura di cadere lo condizionerà e se ritroverà la sicurezza nelle volate. Io stesso dopo l’infortuno al ginocchio avevo sempre paura di cadere. Stava facendo un grande salto di qualità. Gavira ha avuto tanti problemi, ma resta un corridore di grande classe. A fine anno vedremo chi sarà il migliore”
In conclusione: cosa ti auguri per questo 2021?
“Auguro a tutti che si possa tornare alla normalità e che i corridori possano affrontare finalmente una stagione normale. Che si possa trovare un calendario regolare dando serenità ai corridori. Ho qualche dubbio anche perché, appena abbiamo un po’ di libertà, ci dimentichiamo delle regole e viviamo come se nulla fosse accaduto. E questo non lo capisco”.
a cura di M.M. Copyright© InBici Magazine ©Riproduzione Riservata