Da Gambettola ad Atlantic City il passo è breve perché, al di là dei settemila chilometri di distanza, la passione di Mauro Farabegoli per il ciclismo, oggi come ieri, è sempre la stessa.
Fondatore negli anni ‘80 del glorioso team Spazio Ceramica di Gambettola (dove, tra gli altri, muoveva le prime pedalate un certo Marco Pantani), Farabegoli è stato per 10 anni pilota di motociclette per conto della Federciclismo al Giro d’Italia e, negli ultimi anni, ha scoperto l’America, diventando “crew chiefs” (capo-squadra) di team ufficiali della Race Cross America, la gara di ultra-cycling più dura del mondo che si tiene ogni anno tra la California ed Atlantic City.
Mauro, cominciamo dall’inizio. Cosa ricorda del team Spazio Ceramica di Gambettola?
“Ricordo tanti momenti esaltanti. Era un team composto da giovani molto promettenti, ragazzi che volevano fare sport e che non conoscevano ancora le distrazioni dei telefonini. Un sodalizio fantastico che, in quegli anni, vinceva tanto”.
Tra “quelli di talento” c’era anche un certo Marco Pantani che, però, in termini di vittorie, in quegli anni non dava un grande contributo…
“Con noi fece un successo e nove secondi posti. Era già il più forte di tutti, ma gli mancava un po’ di senso tattico”.
In che senso?
“Con noi ha fatto 40 corse e, per 39 volte, fino agli ultimissimi chilometri, se ne stava fisso a pedalare in ultima posizione. Poi, quando scattava in salita, faceva il vuoto, ma tante volte partiva un pizzico in ritardo e qualcuno che gli arrivava davanti c’era sempre. Quanti cazzotti che ho dato al manubrio dell’ammiraglia per colpa sua!”.
Però si era già accorto che Pantani non era un ciclista come gli altri?
“Me ne accorgevo quando lavoravamo sulle lunghe distanze. Quando ordinavo un’ora in più di lavoro, tutti a lamentarsi fuorché lui. Scorrevo, uno a uno, tutti i corridori con la macchina e vedevo lingue lunghe e facce stravolte. Marco, invece, sembrava non fare mai fatica”.
In quella squadra correvano anche Filippo Baldassari e Andrea Agostini…
“Filo, in quegli anni, su certi terreni, mi sembrava anche più forte del Panta, ma rispetto a Marco aveva valori ematici differenti. Dopo tre mesi di corse, Pantani aveva un ematocrito altissimo, Baldassari invece, sul piano fisico, aveva bisogno di pause. In ogni caso erano entrambi fortissimi in salita; mi ricordo, in particolare, un arrivo sul Poggio con i giudici impressionati dal loro ritmo. Agostini invece era un numero uno sul piano dell’intelligenza tattica, ma aveva un motore diverso e, anche se in volata non perdonava, sulle lunghe distanze pagava un po’”.
Perché finì l’esperienza sportiva del team Spazio Ceramica di Gambettola?
“Perché già allora avevamo problemi di ricambio generazionale. I ragazzi disposti al sacrificio del ciclismo erano, anno dopo anno, sempre di meno. Ricordo che l’ultima stagione fummo costretti a reclutare gli atleti nel ravennate. E poi subentrarono difficoltà con gli sponsor e, dunque, il progetto perse la sua sostenibilità economica. Infine, sono uno a cui piace cambiare e, ad un certo punto, seppur a malincuore, mi resi conto che quell’esperienza era definitivamente conclusa”.
E a quel punto diventò pilota ufficiale per la Federciclismo nella carovana del Giro d’Italia…
“La prospettiva più bella per seguire le gare. Sarebbe stato il mio lavoro ideale ma, anche se mi divertivo un sacco, non guadagnavo abbastanza per far vivere la mia famiglia, così dovetti voltar pagina”.
Negli ultimi anni per lei il ciclismo è stato, soprattutto, a “stelle & strisce”…
“La Race Cross America è una gara ‘coast to coast’ spettacolare, che mi ha subito conquistato. Bisogna pedalare per cinquemila chilometri in un tempo massimo di dodici giorni. Dunque, gli atleti devono affrontare in media 480 chilometri al giorno, lottando con la fame e con il sonno. Ho fatto dodici edizioni come crew chiefs per team italiani e poi, lo scorso anno, ho supportato il team di Max Sala, il medico sociale del Manchester City che era lì per raccogliere fondi a favore dei bambini disabili”.
E adesso cosa c’è nel futuro di Mauro Farabegoli?
“Il divano di casa e l’affetto della mia famiglia. Ho 65 anni ed è giusto tirare il fiato. Per una volta nella mia vita, il ciclismo può attendere”.
a cura di Mario Pugliese Copyright © INBICI MAGAZINE