L’invito questa volta era di quelli cui non potevamo dire di no: «Vi facciamo vedere chi siamo, le bici che usiamo, vi facciamo conoscere i nostri corridori, vi spieghiamo la nostra visione delle corse e la nostra missione».
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Il tenore dell’invito era esattamente questo, ma questa volta non si trattava del classico invito al training camp di una squadra professionistica, ma del collegiale di una squadra molto particolare.
A Populonia, in provincia di Livorno, dal 10 al 25 giugno 2022, si è dato appuntamento il Team Novo Nordisk, compagine professionistica statunitense di ambito Uci Professional, ovvero appena un gradino al di sotto del rango cui fanno parte i big team del World Tour. Ma quello in oggetto non un team professionistico come gli altri: l’unicità di questa squadra che nel 2008 è stata fondata da Phil Southerland è che schiera solo ed esclusivamente corridori diabetici, con diabete di Tipo 1.
Il diabete di tipo 1 è la più severa tra le forme di diabete, quella che insorge in età giovanile per cause ad oggi ancora non note, quella che nel mondo colpisce circa 40 milioni di persone e che nulla a che fare con l’alimentazione, l’obesità o il cattivo stile di vita (queste sì, queste determinano il diabete Mellito, o di “tipo 2”.
Il diabete di tipo 1 è il più complesso da gestire, perché ti obbliga costantemente a monitorare il livello di glucosio nel sangue, con il rischio di finire in coma nel caso in cui il tasso glicemico nel sangue va troppo su o peggio se va troppo giù.
Chi nasce con il diabete di tipo 1 – o più spesso chi scopre in adolescenza di esserne affetto – è costretto a convivere con dispositivi che ti informano in pochi istanti della tua glicemia; e purtroppo è obbligato a convivere anche con le conseguenti auto-iniezioni di insulina, lo stesso ormone che il loro pancreas non produce.
È possibile fare sport di alto livello in queste condizioni e situazioni? Eccome. E il Team Novo Nordisk ne è la prova evidente e vivente.
Fino al 2013 questo team in cui il suo CEO e mentore è sempre stato lo statunitense di Atlanta Phil Southerland (diabetico di Tipo 1 sin dall’infanzia e grande appassionato di ciclismo) aveva una composizione mista, con parte degli atleti diabetici (sei in tutto) e parte non diabetici (diciotto): il messaggio forte di cui si facevano testimoni i primi era proprio dire al mondo che si può fare sport ad alto livello, ispirare chi come loro è stato meno fortunato e promuovere un’attività fisica anche strenua come è il ciclismo quale primo elemento per convivere con questa patologia.
Poi, dal 2013 la “musica” è ulteriormente cambiata: a subentrare come main sponsor nella squadra che fino a quel momento si chiamava semplicemente “Type1”, ovvero “Tipo1”, è stata Novo Nordisk, azienda farmaceutica danese che è tra le prime aziende nella produzione di insulina e che in campo diabetologico fa continua ricerca.
Da quel momento in poi la volontà del main sponsor è stata quella di ingaggiare solo ed esclusivamente corridori diabetici, chiamati a competere nelle gare migliori al mondo, spalla a spalla coi loro colleghi non diabetici, esattamente sullo stesso livello, esattamente sullo tesso piano.
In un recente passato il Team Novo Nordisk ha più volte ottenuto una wild-card per partecipare alla Milano-Sanremo, nella stagione in corso i ragazzi in maglia blu-ocra hanno corso al Tour of Oman, al Tour of Turkey e Giro di Ungheria (solo per citarne alcune), mentre nella stagione passata Novo Nordisk ha persino vinto il campionato finlandese professionisti grazie a Joonas Henttala.
Sono tutte testimonianze evidenti di quanto le capacità e le potenzialità di questi ragazzi vadano anche oltre la veicolazione e la promozione del messaggio nobile di cui sono portatori: con il diabete si può competere allo stesso livello di tutti gli altri.
Fin qui la storia del team, che a Populonia ci ha spiegato bene il suo CEO Soutehrland, il suo manager Vassilli Davidenko e soprattutto i suoi tre italiani Umberto Poli, Filippo Ridolfo e Andrea Peron.
Ma l’unicità di questa compagine professionistica va anche oltre, va nella sua gestione e nella sua organizzazione, che a modo suo ricalca la gestione di altri big team del ciclismo, aggiungendo a questo la missione principale che ne motiva l’esistenza.
Sì, perché oltre ai diciotto componenti del team Professional (e i tre che svolgono attività su pista), al collegiale di Populonia sono stati chiamati a partecipare anche i dieci rider inseriti nel Team Development, che in pratica è il vivaio della squadra maggiore: si tratta di dieci ragazzi – anche questi provenienti da tutto il mondo – inseriti in un team sempre professionistico, ma di rango Continental, che – chissà – un domani vedremo nelle fila del team Professional.
Non finisce qui, perché la vera base di questo ineccepibile sistema di reclutamento di campioni (diabetici) è l’Talent ID, appunto Identification Talent: il formato è quello per cui in questi grandi ritiri che annualmente organizza la squadra sono chiamati a partecipare anche i più giovani ciclisti diabetici che – semplicemente attraverso un form nel sito internet della squadra – fanno richiesta di adesione al team, per provare a fare questo unico e irripetibile percorso atletico e umano.
È poi il management che si occupa di filtrare, selezionare e valutare la tante richieste che annualmente arrivano da tutto il mondo per far parte del Talent ID Camp.
Chi ha i requisiti e i giusti “numeri” viene appunto convocato al Talent ID Camp, che di solito si svolge in più di una occasione durante l’anno: durante il Talent ID Camp i giovani hanno il modo di vivere la loro esperienza assieme ai campioni che il loro sogno di diventare professionista lo hanno realizzato. Ad esempio, in occasione del training camp di Populonia i giovani selezionati per il Talent ID erano ben 25, venticinque talenti provenienti un po’ da tutto il modo.
Chissà, anche per tanti di loro questo potrebbe essere solo il primo passo di una grande carriera da atleti, un sogno che diventa realtà e ancora una volta una testimonianza forte verso tutti quanti – diabetici e non – di quanto questa malattia non sia affatto una disabilità e men che meno uno stigma di cui vergognarsi o da tenersi dentro.
a cura di Maurizio Coccia ©Riproduzione Riservata-Copyright© InBici Magazine