Dai primi scatti da juniores alla consacrazione nei grandi giri. Nel mio obiettivo la storia di un campione che ha sempre gioito e pianto da vero uomo.
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Ivan lo conosco da quando correva negli juniores. Prima lo incontravo solo nelle gare che, occasionalmente, riuscivo a vedere. Poi, col suo passaggio tra i professionisti, sempre più frequentemente. Posso dire di essergli stato vicino nei momenti di gioia, ma anche in quelli più amari.
Nel 1995, mentre con Claudio Chiappucci facevo la ricognizione del percorso del mondiale di Lugano, in cima alla salita, mi fermai a fare la foto a Chiappucci con il cartello della Crespera, la salita dove Coppi nel 1953 vinse i mondiali. In quel frangente Claudio mi disse: “Fammi la foto anche con lui, che un giorno diventerà famoso”. Era Basso con la maglia della Gornatese, era venuto con lui in allenamento.
Poi la vittoria ai mondiali di Valkenburg e l’anno successivo, dopo il Giro Baby, ci vedemmo da Fior e gli scattai le prime foto da professionista in maglia Asics. Poi i nostri incontri si fecero sempre più fitti.
Ancora oggi siamo ottimi amici e ci rispettiamo moltissimo, non a caso Ivan mi chiama ogni qual volta ha bisogno di fare fotografie. Nel 2006 vinse il suo primo Giro d’Italia e nella tappa dell’Aprica prima passò tra due ali di folla in maglia rosa, giusto dietro la mia moto, e poi arrivò tenendo stretta la foto di Santiago appena nato. E come faceva ad averla? Sua moglie Micaela mi aveva mandato sul mio cellulare la foto, io avevo preparato una stampa e a Trento gli avevo fatto la sorpresa. Lui la mise in tasca e sul traguardo la alzò al cielo.
Anche quando nacque Levante, il suo terzo figlio, mezz’ora dopo la nascita ero già con lui all’ospedale per fargli la foto. Il giorno dopo partivamo per l’Argentina e voleva un ricordo da portare con sè.
Nei due anni di stop forzato dovuti all’Operacion Puerto, siamo stati molto vicini. Ci sentivamo spesso al telefono e, in quel periodo, dove andava lui c’ero sempre anch’io: dal semplice concerto di Mango, suo grande amico (lo fotografai mentre suonava la batteria con lui), alle prime uscite in bici con i figli per arrivare al tour de force sullo Stelvio nel mese di giugno. Anche senza impegni agonistici da affrontare, scalava la montagna dei ciclisti almeno due volte al giorno e cercava di mantenere i ritmi delle gare.
A gennaio andammo con le famiglie a Dubai per una vacanza. Pedalò con il gruppo di cicloturisti della XSeven di Pinarello per le strade deserte degli Emirati Arabi. Quando si tornava in hotel, dopo oltre cento chilometri, lui allungava per altre due o tre ore. Voleva a tutti i costi mantenere gli standard di allenamento del periodo delle gare, per poi simulare negli stessi periodi le gare e le salite.
Prima del via controllava sempre il suo mezzo: era meticoloso, preciso, attento a tutte le novità che avrebbero potuto portargli un giovamento.
Un mese dopo andammo in India a trovare una piccola famiglia che aveva adottato qualche anno prima e non aveva mai avuto il tempo di incontrare di persona. Fu un viaggio faticoso ma toccante: vedere i luoghi in cui vivono migliaia di persone in condizioni estreme e in luoghi incredibili, ti segna per sempre. Nei pochi giorni di permanenza volle comprare delle biciclette per tutta la “sua famiglia indiana” e quando gliele portammo gli occhioni neri dei bimbi luccicavano di felicità. Siamo passati in quindici giorni dal lusso di Dubai alle baracche di lamiera di Pune in India, incredibile!
Ormai il giorno del rientro si avvicinava e, almeno una volta ogni quindici giorni, lo fotografavo nei suoi allenamenti con i quali cercava di ritrovare il ritmo gara.
Scalava spesso il Sacro Monte di Varese, saliva e scendeva almeno tre o quattro volte, oppure dietro la moto guidata da Aldo Sassi, percorreva con il suo completo nero chilometri di strada anche sotto la pioggia. Era tutto preparato nei minimi dettagli: gli orari d’uscita, la prova della bici da cronometro, le salite e le discese, la sua unica bestia nera. Finalmente alla fine del 2008 terminò il calvario della squalifica e rientrò alle gare in Giappone.
Non potevo non esserci: appena seppi della sua decisone di partecipare all’ultima gara dell’anno, prenotai un volo e partii per Tokio. La Japan Cup si correva sul percorso disegnato per il mondiale del 1990 a Utsunomiya ma nel senso inverso. Gli spettatori erano numerosissimi e accoglievano tutti i concorrenti come idoli, restavano per ore in coda per poter avere solo il loro autografo.
Corse con una grinta incredibile ed arrivò terzo al traguardo. La sera mi invitò con i suoi nuovi compagni della Liquigas in un ristorante a mangiare sushi per festeggiare il suo rientro alle gare e, dopo molto tempo, il suo viso tornò ad essere sereno e tranquillo. Sprizzava gioia da tutti i pori. Cenammo seduti per terra, ripassando in allegria anche i momenti più difficili.
A gennaio partimmo per il Tour di San Luis in Argentina. Un viaggio lunghissimo: a causa di scioperi e ritardi, ci vollero quasi tre giorni per arrivare a destinazione. Prima una notte a Madrid poi un’altra a Buenos Aires, infine atterrammo a Mendoza e impiegammo 5 ore di pullman per arrivare alla meta.
Noi stravolti, lui con le sue cuffie per la musica, ogni tanto mangiava la sua barretta e al mattino seguente, dopo le migliaia di chilometri fatti in aereo e le ore di fuso, era dai meccanici a farsi montare il nuovo manubrio scalpitando per poter uscire in allenamento.
Ogni tanto chiedevo di far qualche foto per contestualizzare i miei scatti e Ivan non si tirava mai indietro.
Certo, bisogna capire quando si può chiedere senza dar fastidio, questo è molto importante per poter stare al fianco dei campioni. La stagione del pieno rientro portò molti bei piazzamenti, ma nessuna vittoria di prestigio. Lo riportò, però, con la testa a ragionare da campione.
Nella stagione 2010 tornò al vecchio sistema di allenamento. Appena il tempo lo permise, andammo a provare lo Zoncolan, la montagna terribile con le sue pendenze difficilissime. Qui studiò ogni minima curva, la sua mente era già a maggio, ogni tanto tornava indietro e rifaceva la curva o il pezzo di rettilineo ripido. Qui mi disse, “scatto e li lascio tutti”. Sono cose che si dicono, un po’ per scaramanzia un po’ per gioco, ma quando nella 15ª tappa del Giro affrontammo lo Zoncolan, lui attese quel tratto e poi via solitario verso l’arrivo a conquistare il suo secondo Giro.
Io chiaramente mi ricordavo il posto e nel momento del suo scatto ero prontissimo ad immortalarlo: quella sua espressione di grinta e la bocca aperta è una delle fotografie che amo di più. In quello scatto c’è tutta la voglia e la convinzione di voler fare qualche cosa di entusiasmante a pochi chilometri dall’arrivo. Poi qualche giorno dopo arrivò il suo trionfo a Verona, l’abbraccio a tutta la sua famiglia e ad Aldo Sassi credo rimarrà nella storia del ciclismo.
Roberto Bettini – Copyright © iNBiCi magazine