Vincitore di due Amstel Gold Race e di un tricolore a pochi mesi dal debutto tra i professionisti, Enrico Gasparotto, dopo sedici anni di carriera, è pronto ad affrontare una nuova stagione tenendo un occhio fisso sull’Olimpiade di Tokyo.
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Il corridore nato a Sacile, ma ora cittadino elvetico, racconta le sue giornate durante lo stop delle corse: “Per la prima volta nella mia vita ho vissuto più di tre mesi con mia moglie e ho passato a pieni voti la prova. Ne ho approfittato per godermi la vita privata. So che in Italia è stato più difficile trascorre il periodo di lockdown, mentre in Svizzera nessuno ha mai proibito l’attività all’aperto e per noi atleti è stato importante soprattutto dal punto di vista psicologico”.
Questo stop forzato ti ha fatto riflettere anche sulla conclusione del tuo percorso da professionista?
“Prima del Covid avevo intenzione di chiudere la carriera a fine stagione perché era l’anno olimpico e avendo cittadinanza svizzera volevo giocarmi le mie possibilità per essere a Tokyo. Ora, proprio per tale motivo, ho deciso di rinviare il ritiro al 2021. Questo stop mi ha fatto riflettere, ho valutato attentamente i pro e i contro anche alla luce dei miei trentotto anni. Esporrò la mia idea al team e speriamo di trovare un punto d’incontro”.
Hai mantenuto i contatti in questo periodo con la NTT per programmare la ripartenza?
“Come squadra abbiamo gestito queste ultime settimane con conference call e ora siamo riuniti a Lucca. Abbiamo già deciso il programma gare e io sarò impegnato soprattutto nella seconda parte, dopo Giro di Polonia, Lombardia, dovrei correre la Tirreno Adriatico, il mondiale, le Classiche e la Vuelta”.
Che corse vedremo nei prossimi tre mesi?
“Non sarà tutto scontato. Ci sarà maggiore spettacolo e anche i tifosi si divertiranno di più a seguire le corse. Un esempio che mi piace fare riguarda il Lombardia. Per la prima volta la Classica delle foglie morte sarà poco prima del Tour de France. Escludendo Nibali, per molti di questi corridori sarà una occasione unica per vincerla perché arriveranno pronti e senza un’intera stagione nelle gambe”.
In tanti anni di carriera quali sono i cambiamenti che hai notato nel ciclismo?
“Ognuno è figlio della propria era e rispetto a quando sono passato professionista penso siano passate tre generazioni. Quello che noto ora è che molti giovani arrivano già pronti, perché fin da juniores usano i potenziometri e altri strumenti. Io sono stato fortunato perché ho vinto subito il campionato italiano ma la mia prima Sanremo l’ho fatta solo al terzo anno di professionismo. Adesso i giovani devono essere al top da subito, non hanno molto tempo per adattarsi e crescere, per questo penso che poi sia difficile per loro avere delle carriere lunghe come la mia o come altri atleti della mia generazione”.
Quindi meglio il tuo ciclismo rispetto a quello odierno?
“No, con questo non voglio dire che sia un sistema sbagliato. Oggi i ciclisti magari in dieci anni riescono a vincere molto di più di quello che ho fatto io. Un altro aspetto positivo potrebbe essere che finendo una carriera a trent’anni riescono a reinserirsi in ambito lavorativo più facilmente. Dall’altra parte devo dire che io sono contento perché mi sono divertito e sono soddisfatto del mio lungo percorso”.