Sulle Tre Cime di Lavaredo – definita in quell’occasione “la montagna del disonore” – si consumò una delle pagine più controverse del ciclismo mondiale. Dal “Processo” di Zavoli alla resa di Torriani, ecco i clamorosi retroscena di quell’incredibile giornata
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“Viaggio intorno all’uomo” è un libro che Sergio Zavoli ha scritto nel 1970 sotto forma di interviste ad alcuni grandi personaggi del mondo scientifico, religioso, culturale e sportivo.
Nella parte in cui pone una serie di domande ai protagonisti del ciclismo (gli stessi che hanno contribuito allo straordinario successo del suo famoso “Processo alla tappa”) a mio giudizio hanno particolare rilievo le parole di Vincenzo Torriani. Zavoli al patron: “Tu vorresti un ciclismo esente da ogni colpa, mai sfiorato da sospetti. Perché, per esempio, ti preoccupi tanto quando si parla di spinte, di doping, di alleanze, cioè di tutti i ‘peccati originali’ di questo sport?” Risposta di Torriani: “Vedi, il Giro è un fatto di costume, oltre che sportivo, quindi vorrei che tutto, in ogni suo atto, fosse bello, pulito, esaltante, non solo in nome dello sport, ma dell’uomo in generale. Del resto, solo se il Giro è così so di soddisfare me stesso, la folla, la carovana”.
Il fatto decisamente curioso è che Sergio Zavoli è rimasto coinvolto tre anni prima, Giro ’67, in alcuni dei peccati originali che il grande organizzatore cercava di tenere lontano dalla sua corsa. Vediamo come.
Con una delle sue geniali idee, Vincenzo Torriani aveva previsto a Milano un fastoso cerimoniale di presentazione del 50° Giro d’Italia in Galleria Vittorio Emanuele nell’anno del centenario della sua inaugurazione. A seguire un prologo in notturna (lo Sprint del Cinquantenario, 16 km) con partenza e arrivo in Piazza del Duomo. Splendida idea rimasta nel cassetto perché il Giro offrì l’occasione a poche decine di manifestanti, soprattutto studenti, di inscenare una plateale protesta per la guerra in Vietnam. Per evitare eventuali scontri e salvaguardare l’incolumità dei corridori, gli organizzatori rinunciarono così al carosello nel cuore della metropoli lombarda.
C’era molta attesa per il Giro numero cinquanta che schierava al via i vincitori delle ultime cinque edizioni, da Balmamion ad Anquetil, da Adorni a Motta ed i pronostici indicavano come favoriti Felice Gimondi, che l’anno precedente aveva perso il confronto con Gianni Motta, e Jacques Anquetil che inseguiva la sua terza maglia rosa dopo quelle conquistate nel ’60 e nel ’64.
Per i corridori italiani l’inizio fu promettente, con le vittorie di Zancanaro, Zandegù e Dancelli che per tre giorni vestì la maglia di leader della classifica. Ma quando cominciò la risalita dalla Sicilia non solo la maglia rosa fu presa in ostaggio da un solido spagnolo, José Perez Frances, ma anche le tappe furono appannaggio di velocisti fiamminghi tra i quali figurava il nome di Eddy Merckx, che destò grande sorpresa quando si aggiudicò il traguardo posto in cima all’inedito Block Haus. Dodici mesi dopo il ciclismo mondiale avrebbe cominciato a salutarlo come il più grande corridore di tutti i tempi.
In quei giorni si cominciò a parlare di “santa alleanza” nel “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli. Per una settimana intera si alternarono sul palco delle premiazioni corridori con passaporto diverso da quello italiano, lo stesso Perez Frances cominciava a preoccupare.
Ecco allora che dal piccolo schermo si levavano, tappa dopo tappa, invocazioni sempre più pressanti perché i ciclisti italiani mettessero da parte il loro forte antagonismo per far causa comune contro lo strapotere sempre più massiccio degli stranieri. E soprattutto perché l’ingombrante ombra di Anquetil, diretto dall’ammiraglia da un grande stratega, Raphael Geminiani (romagnolo trapiantato in Francia) continuava ad aleggiare sul Giro.
Nella cronometro di Verona il normanno aveva lasciato il successo di giornata al danese Ole Ritter, ma non si era lasciato sfuggire la conquista della maglia rosa, che ventiquattr’ore dopo aveva lasciato sulle spalle di Silvano Schiavon.
Una delle tappe giudicate decisive era quella che si concludeva sull’inedito traguardo delle Tre Cime di Lavaredo. Ebbene, in una giornata dal clima rigidamente invernale i protagonisti del Giro affrontarono una delle salite più impervie tra due ali di gente di montagna che aveva combattuto il freddo con abbondanti bevute. Vista la fatica e le condizioni inclementi, i tifosi fecero a gara a chi spingeva di più i concorrenti lungo la salita. Felice Gimondi si aggiudicò la tappa precedendo Merckx (ma non era solo un velocista?) , Motta e un giovanissimo neoprofessionista, Miro Panizza centrando l’obiettivo fissato alla partenza da Udine, distanziare Anquetil e gettare solide basi per la conquista della maglia rosa finale.
Ovviamente, dopo l’arrivo, lo scandalo delle spinte fu oggetto di moltissime discussioni che trovarono un formidabile palcoscenico proprio nel “Processo alla tappa”.
Sergio Zavoli aveva intuito che era un argomento molto ghiotto e che occorreva prendere provvedimenti. Invitò Panizza che, con la voce rotta dai singhiozzi, sostenne che lui si riteneva l’unico dei corridori tra i primi classificati ad aver affrontato la salita con le proprie gambe, mentre “tutti gli altri erano stati spinti”, quindi il risultato di quella tappa era stato falsato.
Il conduttore della trasmissione invitò anche Torriani e fu facile per lui convincere il patron ad assumere una drastica decisione: annullare la tappa, lasciando ai corridori i previsti premi di giornata. Bruno Raschi, responsabile della rubrica di ciclismo della Gazzetta dello Sport, sintetizzò l’accaduto definendo le Tre Cime “la montagna del disonore”.
Va detto che a quell’epoca la piaga delle spinte in salita contagiava tutte le grandi corse, dalla Vuelta al Tour, dove spesso c’erano stati episodi ritenuti scandalosi, ma mai si era arrivati all’annullamento di una tappa.
La soluzione individuata da Zavoli ed adottata da Torriani non piacque a Giovanni Michelotti, prezioso collaboratore nell’organizzazione del Giro. A distanza di anni da quell’episodio mi confidò: “Zavoli, di cui ero molto amico, non ha avuto il coraggio di fare a me la proposta di annullare la tappa perché sapeva che mi sarei opposto o per lo meno avrei voluto una approfondita discussione per esaminare tutti gli aspetti e tutte le conseguenze. Tempo che Zavoli non aveva perché ‘il Processo’ era in diretta ed una decisione storica annunciata direttamente in tv avrebbe ulteriormente accresciuto la popolarità della sua trasmissione, così ha pensato di scavalcarmi. Con questa decisione, però, era stato penalizzato Gimondi che alle Tre Cime aveva distanziato Anquetil conquistando il vertice della classifica e ipotecando la vittoria finale. Lui aveva a cuore il suo ‘Processo’, a me interessavano le sorti del Giro. Per questo motivo, quando ho potuto, ho rimesso in parità il piatto della bilancia”.
Due giorni dopo, nella Trento-Tirano con un nuovo percorso per l’impossibilità ad affrontare il Passo dello Stelvio chiuso per neve, dopo aver attaccato invano sul Tonale, poco prima dell’Aprica, uno scatto di Gimondi sorprese Anquetil. Sotto una breve galleria, nella scia della vettura di Michelotti (senza che qualcuno potesse assistere alla scena) il vantaggio di qualche decina di metri si dilatò. Dopo di che il campione bergamasco effettuò la sua solitaria e straordinaria cavalcata che gli permise a Tirano di conquistare la maglia rosa ed il primo dei suoi tre Giri d’Italia.
Piccole storie di grandi uomini protagonisti di uno sport che resta affascinante con tutti i suoi limiti ed i suoi difetti.
di Gianfranco Josti – Copyright © iNBiCi magazine