Prima fedele gregario di Pantani, poi ultimo uomo nel “treno” di Petacchi. Storia di un ciclista poliedrico che, pedalando nell’ombra, ha contribuito a scrivere alcune delle pagine più emozionanti del ciclismo moderno
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Marco Velo, ciclista umile e silenzioso, nella sua lunga carriera ha scritto pagine importanti della storia del ciclismo moderno, contribuendo – come pochi gregari al mondo – ai successi dei suoi capitani. Prima alla Mercatone Uno con Marco Pantani e poi nel leggendario treno di Alessandro Petacchi.
A vent’anni dalla storica vittoria del Giro d’Italia del Pirata abbiamo colto l’occasione per condividere le sue emozioni e ripercorrere la sua storia da professionista.
Marco, partiamo proprio dal 1998, un anno indimenticabile per molti appassionati di ciclismo: cosa ti è rimasto di quel Giro?
“I ricordi sono tanti e tutti sicuramente positivi. Era la mia terza partecipazione al Giro ma, visto che ero al primo anno con la Mercatone Uno, essere già nella rosa per il Giro d’Italia è stato un punto d’arrivo importante. Correrlo poi a fianco di uno dei pretendenti alla vittoria finale era motivo d’orgoglio per me. Con il senno di poi, quello è stato forse il più bell’anno della mia carriera”.
Nella memoria di tutti i tifosi del Pirata rimane scolpita la vittoria di Montecampione. Hai qualche retroscena da svelarci di quel giorno?
“Il momento più emozionante della mia storia da professionista l’ho vissuto proprio con Marco al termine di quella tappa. La cosa che mi rimane nel cuore, e che sono felice di raccontare per far capire che persona stupenda era Marco, è stato il fatto che lui, subito dopo che ho tagliato il traguardo, ha fermato il cerimoniale delle premiazioni, è sceso dal palco ed è venuto ad abbracciarmi, dicendomi che gran parte dei centimetri di quella maglia rosa erano anche miei. Aveva grande rispetto per me e per tutti i compagni di squadra”.
L’anno successivo uno dei momenti più bui della storia di Pantani, la squalifica a Madonna di Campiglio…
“Il 1999 sembrava l’anno perfetto, almeno fino a quel fatidico 5 giugno. Quel giorno ci è crollato il mondo addosso perché ci siamo sentiti derubati, passami il termine che rende idea della delusione, di una maglia rosa che sentivamo di aver conquistato sul campo con sudore e impegno”.
Come è stata la tua esperienza alla Mercatone Uno a fianco di Marco?
“Di quelle quattro stagioni mi rimane soprattutto il ricordo dell’amicizia con lui e il rapporto che è continuato con la sua famiglia. L’unico rammarico è che, forse, gli sarei potuto stare più vicino nel momento del bisogno, ma Marco, come molti che son caduti nelle stesse difficoltà, tendeva a sfuggire. Nonostante tutto di lui ho solo ricordi belli, anche nei momenti negativi”.
Successivamente gli anni con Alessandro Petacchi. Come ti trovavi nel ruolo di “ultimo uomo” del suo celebre treno?
“Ho sempre considerato quelli che facevano le volate come dei pazzi e pensavo che non avrei mai partecipato alla bagarre prima di uno sprint. Poi, in una corsa in Spagna, dove in un paio di volte son rimasto lì davanti, Alessandro mi ha chiesto di dargli una mano nel pilotarlo prima del momento decisivo. A lui non piacevano quelli che davano strappi e io ero uno che andava in progressione. Da quell’esperienza è nato il feeling tra noi due e la squadra ha deciso di costruire intorno a noi il celebre “treno” per le volate di Ale-jet. Sia in Fassa Bortolo che in Milram ho sempre corso al suo fianco, facendo le sue stesse corse. C’era grande affiatamento, tanto che quelle vittorie le sento anche mie”.
Ma torniamo agli inizi: come e quando hai scoperto il ciclismo?
“Ho iniziato a pedalare a dodici anni, dopo aver capito che il calcio non era lo sport per me. Mi ha sempre affascinato il mondo delle due ruote e ho deciso di correre per la squadra del paese. Le vittorie sono arrivate da subito e, continuando, anno dopo anno, ho sempre migliorato. È arrivato poi un mondiale da juniores e ho avuto la fortuna di fare solo tre anni tra i dilettanti prima di passare professionista”.
Qual è stato il tuo momento migliore e quello peggiore?
“Ho fatto delle buone vittorie, campionati italiani e corse varie, tuttavia non ne ricordo una in particolare. Per assurdo mi viene più spontaneo ripensare al contributo che ho dato per i successi prestigiosi dei miei capitani. Penso comunque che il mio momento top, che coincide anche con un rimpianto, è stato il mondiale di Verona del 1999. Avevo in squadra gente più blasonata di me, ma andavo davvero forte quel giorno. Ero andato in fuga e, una volta ripresi, mi è toccato andare a chiudere su un tentativo successivo. Dopo aver tirato, mi sono reso conto che eravamo rimasti solo io e Francesco Casagrande. Magari, senza quello sforzo, avrei potuto giocarmi almeno il podio. Il periodo più brutto invece l’ho attraversato nel 2007 quando, a seguito di una brutta caduta alla Gand-Wevelgen, ho pensato di dover concludere lì la mia carriera. Ad agosto dello stesso anno, grazie all’intervento del dottor Terragnoli, ero di nuovo in sella e ho corso sia la Vuelta che il mondiale”.
Un Giro d’Italia concluso all’undicesimo posto, ultimo uomo di Petacchi, forte a cronometro e solido in salita. Ma che corridore eri?
“Non lo so. Spesso anche Davide Cassani, con il quale collaboro per la nazionale, mi fa questa domanda. Lui non riesce ancora a spiegarsi come ho fatto ad avere questa evoluzione, cioè a passare da quasi scalatore a ultimo uomo di Alessandro. Diciamo solo che ho una buona capacità di adattamento e sono riuscito a costruire la mia carriera su due attitudini diverse. Come ciclista poi avrei certamente potuto vincere di più, ma essere stato a fianco di quei capitani mi ha gratificato molto”.
C’è chi dice che avresti potuto ottenere delle vittorie anche in pista: hai mai pensato a gareggiare anche in altre discipline?
“Forse mi pento di essere nato in un’epoca dove non c’era ancora il concetto di multidisciplinarità. I più grandi corridori, che oggi fanno risultati, escono proprio dalla pista. A dir la verità c’era stato un progetto per le Olimpiadi che prevedeva di costruire un quartetto con il treno di Petacchi, però sono emersi dei contrasti, soprattutto di natura economica, che hanno subito fatto naufragare l’idea”.
E oggi cosa fai?
“Come accennato prima, collaboro con Cassani e anche con Rcs, come direzione di corsa. Ho trovato quindi il modo per partecipare ancora al Giro d’Italia, ma ora in sella ad una moto. Il mio pilota è un campione del mondo, Igor Astarloa. Per me è come un fratello perché l’ho conosciuto ancora da dilettante e mi fido molto di lui”.
A cura di Davide Pegurri Copyright © INBICI MAGAZINE