“E’ nato tutto in famiglia. Del resto, basta pronunciare il mio cognome per capire da dove nasce la mia passione per il ciclismo”.
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Giampaolo Stanga nasce a Bergamo 43 anni fa. Cresciuto tra pane e ciclismo grazie alla formidabile carriera di suo padre – Gianluigi Stanga – dal 1983 al 2007 direttore sportivo di team di livello internazionale, da giovane ha pure provato la carriera da corridore arrivando, con discrete credenziali, fino al secondo anno da Allievo. Poi la classica caduta che sposta il destino: per il bergamasco è la fine di un sogno appena accarezzato.
“Andavo forte – ricorda oggi – ho sempre odiato le salite, ma in volata in pochi mi mettevano le ruote davanti”. Fu papà Gianluigi a catapultarlo, ad appena 17 anni, nel mondo del ciclismo facendolo esordire come meccanico in una squadra professionistica: “Io raccomandato? Tutto il contrario. Dovevo sempre essere il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene”.
Gianpaolo, cosa ricordi degli esordi con il team Polti?
“Ricordo un grande insegnamento perché, come maestri, ho sempre avuto dei grandi meccanici. Da loro ho imparato il mestiere e qualche trucco e, senza quell’esperienza, non sarei mai arrivato dove sono adesso. Certo di bici ne ho lavate tante e ancora oggi, a volte, accade ma nella vita tutto serve e una buona gavetta porta sempre lontano. Ho lavorato anche per le squadre che sono venute dopo la Polti, sempre sotto la gestione di mio padre. E questo è continuato per circa 10 anni. Ad un certo punto, però, ho avvertito il bisogno di prendermi una pausa. Ero sempre via da casa, pagavo un affitto ma nell’appartamento non ci stavo mai, così ho deciso di dare una mano a mio fratello che nel frattempo aveva aperto un negozio di biciclette e abbigliamento sportivo. Ci ho lavorato per qualche anno, abbastanza per capire che stare chiuso in un negozio non faceva per me”.
E a quel punto?
“A quel punto sono tornato alle origini. Decisi di parlare con Antonio Bevilacqua che mi aveva visto crescere. Per me lui è come un secondo padre e, infatti, trovammo subito un accordo e approdai al Team Colpack, il top a livello dilettantistico. Fu un’esperienza fantastica favorita anche dal feeling incredibile che subito instaurai con tutti, dallo staff ai corridori”.
La chiamata dal tema UAE qualche anno dopo cosa ha significato per te?
“Un onore. Era il primo anno del Team e quindi avvertivo grandi responsabilità. Tra l’altro, proprio quella stagione, passarono 4 giovani dal Team Colpack: Troìa, Consonni, Ganna e Ravasi. Sono stato accolto molto bene e ho saputo ritagliarmi i miei spazi senza pressioni. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con la dirigenza ed i colleghi. Bastarono pochi giorni per rendermi conto di essere in una World Tour. Anche se la squadra era appena nata già si vedeva che aveva potenzialità enormi…”.
Qual è stata, in questi anni, l’emozione più grande?
“Le emozioni sono state tante, la prima gioia invece fu con Rui Costa che portò la prima vittoria al Team. Ne arrivarono poi tante altre e tutte, ogni volta, hanno un sapore particolare. Ricordo con immensa gioia la mia prima vittoria: era la mia prima corsa ufficiale, trofeo Donoratico, e il grande Diego Ulissi fece una corsa meravigliosa conquistando il gradino più alto del podio. Sono un tipo sanguigno e vivo le corse come fossi io a correre. Quel giorno non lo dimenticherò. Ma le emozioni non finiscono mai; si trova sempre qualcosa di positivo anche se non arriva la vittoria”.
Quale spazio ti sei ritagliato all’interno del team ?
“Mah, in un team di questo livello i compiti sono assegnati con il massino scrupolo e non c’è spazio per l’improvvisazione. Ognuno ha le sue mansioni e un calendario da rispettare. Oltre le corse c’è un magazzino da mandare avanti e questo è un altro lavoro particolarmente impegnativo”.
Parliamo di un anno difficile, il 2020…
“Un anno davvero terribile. Non si potevano programmare corse e, ad un certo punto, sembrava che ci si dovesse fermare e che la stagione non sarebbe neppure iniziata. A tratti è stato così, ma dove abbiamo potuto gareggiare abbiamo fatto sempre molto bene. E’ stato un anno terribile, ma le regole del Team sono eccezionali e abbiamo lavorato molto su prevenzione, tanto gel lava-mani e sempre rispettando i protocolli. Tanto che, alla fine, grazie a Pogacar, è stato un anno trionfale per noi”.
Sei cresciuto in una famiglia di vincenti: perdere per te che significato ha?
“Perdere fa parte del gioco, non si può vincere sempre. Le delusioni per corse non perfette ci sono ma si volta pagina e si pensa subito alla prossima”.
Il Tour del 2020 è stata la ciliegina?
“Non mi era mai capitato di vincere un Tour de France… Devo ammettere che qualche lacrima è scesa!”.
a cura di Leonardo Serra ©Riproduzione Riservata-Copyright© InBici Magazine